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CIELI DI PIETRA
Arturo Carlo Quintavalle
Non ho chiesto a Luca Mantovani perché abbia scelto, come apertura del suo importante volume di immagini, come a dire un diario, una confessione, una riflessione sul proprio modo di pensare lo spazio, non ho chiesto come mai, in apertura, ci sia la Orazione nell’Orto del Mantegna alla National Gallery di Londra e, magari, non ci sia quella, siamo alla metà del secolo XV, della Pala di San Zeno a Verona ed ora a Tours. In fondo, in ambedue, apparentemente troviamo gli stessi elementi, Cristo in ginocchio che prega, gli Apostoli addormentati, la fila degli armigeri che arrivano guidati da Giuda, il traditore; alla fine però, confrontando le due immagini, penso di avere capito. Nel dipinto di Londra i blocchi delle figure sono molto più vicini a noi, lo spazio è più compresso, l’albero a sinistra del dipinto di Tours apre su un enorme paesaggio con la città murata al fondo, nel dipinto della National invece l’albero fa da quinta in primo piano e regge un nero uccello sui rami spogli, e l’albero stecchito e il nero uccello sono segni di morte. La prospettiva del dipinto di Mantegna è la chiave per capire la scelta di Mantovani: lo spazio nel quadro di Londra è scandito, certo, ma anche scomposto. Poco oltre la roccia su cui si inginocchia il Redentore ecco gli Apostoli chiusi in una frastagliata quinta di roccia, sopra di loro Cristo dialoga con putti come nella Cantoria di Donatello a Santa Maria del Fiore e, a sinistra, alcune lepri animano il terreno come sulla strada bianca in basso a destra. Dietro il Cristo la lontana città del dipinto di Tours, vista da un punto di stazione ribassato, diventa, nel quadro di Londra, evocazione di Roma: le lunghe mura chiudono Torre delle Milizie e Colosseo e molti altri monumenti, sottilmente mescolati a citazioni di campanili veneziani, magari di San Marco, mentre al centro, in alto, una enorme, piramidale roccia bianca appare segno del divino. Sotto, a destra, le piccole figure degli armigeri e di Giuda sono osservate da un punto di stazione ancora diverso, diverso da quello degli Apostoli enormi in primo piano. Perché scegliere questa immagine e non magari quella di Giovanni Bellini che i due dipinti di Mantegna di Tours e di Londra certo ha veduto, Bellini che, nel dipinto della Orazione nell’Orto di Londra, alza il punto di vista, costruisce uno spazio unitario, lo stesso del Cristo e dei tre Apostoli e segna, ai limiti del monte a sinistra, una bianca, luminosa città, e, a destra, un cupo profilo di monti. Certo, archeologia e lunga durata nelle immagini di Mantegna, certo dialogo con Jan van Eyck e Rogier van der Weyden per Bellini, ma, tornando alla domanda iniziale, perché mai un fotografo così partecipe, attento, mette, in apertura di un volume di sue fotografie, proprio il dipinto di Mantegna? Avanzo una ipotesi: perché quello delle diverse prospettive, quello del dialogo figure-architetture, quello del rapporto rocce-figure come rocce, quello dei punti di vista differenti è la chiave per capire il lavoro di Luca Mantovani. Evocano quindi le scandite, diversificate prospettive del quadro del Mantegna i diversi punti di ripresa, le ritagliate scansioni delle foto di Mantovani. Ed ecco, subito, Castellaro Lagusello, mura, torri, scorcio dal basso; oppure, a Fontanellato, la vista dalla torre della campagna aperta senza limiti, profilo lontano, come la città incombente del dipinto di Londra. Anche Volta Mantovana evoca di nuovo Mantegna, come a dire, lo sguardo del passato avvia quello dell’oggi a capire, a leggere il presente. Mantovani ha il senso del camminare il paesaggio, dico bene, non nel ma il paesaggio, come a Venezia, come a Castellaro Lagusello dove basta un minimo spostamento di punto di ripresa e tutto, improvvisamente, cambia. Certo, dentro queste immagini, leggi la consapevolezza della fotografia che è pensata come essere direttamente in una finestra: a Mantovani piace leggere lo spazio così, usa una Leica a telemetro perché ama vedere la fotografia prima di scattare, vuole pensare l’immagine. Queste sono tutte fotografie pensate a lungo: per sceglierne una sessantina ne ha scattate soltanto una ventina di più, fotografia come meditazione, dialogo attento, percorsi meditati sui luoghi, nei luoghi. E Sabbioneta è una chiave importante: il muro cilindrico svasato di una parte delle mura, lo scorcio della parete da cui trapela, come nel dipinto di Bellini, un paesaggio; e ancora un tronco rinsecchito, come l’albero di Mantegna in primo piano nel quadro di Londra, e ancora l’albero fiorito e quello stecchito a confronto, sempre sulle mura di Sabbioneta, che fanno pensare alle simbologie del meta-tempo, della durata che si colloca oltre il tempo, nella Resurrezione di Borgo San Sepolcro di Piero della Francesca coi due alberi uno fiorito e l’altro stecchito, albero che torna molte volte nei dipinti di Giovanni Bellini, ad esempio nel San Francesco della collezione Frick a New York. Un fotografo così attento come Mantovani non ha fatto tutto questo per caso, e lo conferma la meditata durezza delle immagini che seguono: un angolo di Sabbioneta a confronto con una immagine vagamente Art Nouveau della fabbrica del Labirinto alla Masone e poi le strutture raffinatamente arrotondate di Mantova, colte negli spazi enormi della reggia e di Palazzo Siliprandi, contrappunto di altre arcate, altri spazi, da Palazzo Pisani a Venezia, alla Galleria degli Antichi a Sabbioneta. Nel libro sono importanti gli accostamenti, corridoi scorciati fra muri, diedri, ma ancora dettagli di grande forza, come la base di un pilastro della chiesa dell’Angelo Raffaele a Venezia e quella di colonne e pilastri del Duomo di Mantova. Luca Mantovani ha la sapienza della scoperta dei dettagli, ad esempio di volte, di colonne, di volumi, e sa sempre come illuminarli di una luce pari, con tagli di grande efficacia. Il suo sguardo ha una tagliente durezza, e penso ai pilastri di Palazzo Te con le nicchie e il bugnato rustico dei basamenti, e penso agli scorci di una colonnata semicircolare nel grande sistema della reggia a Mantova o ai resti della chiesa di San Domenico, nei pressi delle Pescherie di Giulio Romano, sempre a Mantova, dove scopri un arco in rovina, un frammento, particolari sospesi nel vuoto come quella edicola con croce al centro, ritagliata contro una parete bianca, o come il pozzo inquadrato fra due colonne e al culmine un timpano nel cortile di Palazzo Grimani a Venezia. La foto di Bagnolo San Vito è un enigma, ma insieme dialogo e variante rispetto a una precedente storia. Luigi Ghirri riprende in veduta frontale quel portale aperto sul nulla, spazio senza eventi nel vuoto della campagna; Mantovani sceglie una strada diversa, lungi dalla ironia sottile e sempre presente nello sguardo di Ghirri (lo scrive Gloria Bianchino nel saggio che introduce la precedente ricerca di Mantovani, Piccole Terre di Frontiera), considera il pilastro come struttura isolata, lo riprende dal basso senza il contrappunto dell’altro sostegno, lo mette in parallelo con il filare e la strada che affonda dietro, lo fa sembrare una struttura isolata, densa di forza. E poi ecco lo sguardo verso l’alto, a confronto torri diverse, Pomponesco e Venezia, o ancora la parte alta della rotonda matildica di Mantova e un arco dell’Arsenale di Venezia sul vuoto bianco e poi, ancora a coppie, le immagini scorciate, diedri di edifici, a Sabbioneta e a Mantova, scorci ripetuti dove la densità delle forme fa cogliere una durezza rocciosa, una impressionante scomposizione dei dettagli fino alla griglia dei rosoni di pietra sotto l’arco di trionfo del Sant’Andrea a Mantova, fino a quelli delle volticelle a crociera che poggiano sulle colonne del portico della Beata Vergine Incoronata a Sabbioneta. Il libro continua con invenzioni di eccezionale trasparenza di sguardo: un angolo di struttura a la Masone, una bianchissima colonna del Teatro Sociale a Mantova, e poi sovrapporsi di cornici nello scorcio zenitale delle facciate della chiesa di San Barnaba a Mantova e, alla fine, due figure al culmine delle strutture a Pomponesco e a Mantova. Dunque un grande racconto questo di Mantovani, per lui infatti quel dipinto del Mantegna a Londra, e quello meno per lui stimolante di Tours e ancora quello di Giovanni Bellini sempre a Londra, gli hanno fatto comprendere che lo spazio si evoca per frammenti, che dialogando direttamente con un frammento si raggiunge una dimensione diversa, sublime potrei dire, nel rapporto con le cose. Penso che lui, Mantovani, sappia andare oltre le radici formali di Gabriele Basilico in Walker Evans e, ancora, andare oltre la contemplazione delle immagini di tanti altri fotografi, da quella sublimata di Giovanni Chiaramonte agli altri del gruppo di Viaggio in Italia, perché sta scoprendo qui una storia diversa, sta passando insomma dall’analisi formale e magari anche mitica del paesaggio a una incombente durezza delle forme, a una loro presenza violenta, ineludibile, ossessiva. Pensare un dipinto come quello di Mantegna a Londra, coglierne le scansioni spaziali così diverse e stabilire una trama narrativa dove si inizia con pacate, intuite visioni della pianura per arrivare poi a scansioni di spazi sempre più taglienti e repulsive, non deve essere frainteso. La visione letteraria, contemplata, di tante immagini del Po, il Po che scende al piano e si dilata negli spazi larghi delle anse e, in estate, delle lanche nei terreni golenali è, mi sembra, qualcosa che non corrisponde alla forza e al racconto di questo volume. Mantovani non contempla, ma analizza, costruisce, scompone, taglia le forme e le rende aggressive, per lui il viaggio mitico, sottilmente angosciante del primo volume, diventa, nel secondo, nuovo spazio, nuova presenza, frattura, costante evidenza, anche violenza. Scopro insomma che Ghirri o Chiaramonte o Basilico sono sempre più lontani, e anche e proprio Ghirri, con la sua surreale capacità di scoprire ironici contrappunti nelle immagini, è un modello conosciuto, amato, ma distante. Mantovani sceglie la durezza del paesaggio, anzi delle sue strutture, ritaglia l’ingombrante presenza di colonne, basamenti, diedri, scopre la loro geometrica astrazione e le collega alla bloccata scansione, per distinti frammenti di racconto, della Orazione nell’Orto di Londra. Finora molto pochi, e nessuno del gruppo dei fotografi di Viaggio in Italia, aveva saputo raccontare la violenza delle architetture, degli spazi, della storia come Luca Mantovani sta facendo. In alto, di scorcio, a fine libro, scolpite come i tre Apostoli nel quadro di Mantegna, ci sono due figure, contro cieli di pietra.
CIELI DI PIETRA
Arturo Carlo Quintavalle
Non ho chiesto a Luca Mantovani perché abbia scelto, come apertura del suo importante volume di immagini, come a dire un diario, una confessione, una riflessione sul proprio modo di pensare lo spazio, non ho chiesto come mai, in apertura, ci sia la Orazione nell’Orto del Mantegna alla National Gallery di Londra e, magari, non ci sia quella, siamo alla metà del secolo XV, della Pala di San Zeno a Verona ed ora a Tours. In fondo, in ambedue, apparentemente troviamo gli stessi elementi, Cristo in ginocchio che prega, gli Apostoli addormentati, la fila degli armigeri che arrivano guidati da Giuda, il traditore; alla fine però, confrontando le due immagini, penso di avere capito. Nel dipinto di Londra i blocchi delle figure sono molto più vicini a noi, lo spazio è più compresso, l’albero a sinistra del dipinto di Tours apre su un enorme paesaggio con la città murata al fondo, nel dipinto della National invece l’albero fa da quinta in primo piano e regge un nero uccello sui rami spogli, e l’albero stecchito e il nero uccello sono segni di morte. La prospettiva del dipinto di Mantegna è la chiave per capire la scelta di Mantovani: lo spazio nel quadro di Londra è scandito, certo, ma anche scomposto. Poco oltre la roccia su cui si inginocchia il Redentore ecco gli Apostoli chiusi in una frastagliata quinta di roccia, sopra di loro Cristo dialoga con putti come nella Cantoria di Donatello a Santa Maria del Fiore e, a sinistra, alcune lepri animano il terreno come sulla strada bianca in basso a destra. Dietro il Cristo la lontana città del dipinto di Tours, vista da un punto di stazione ribassato, diventa, nel quadro di Londra, evocazione di Roma: le lunghe mura chiudono Torre delle Milizie e Colosseo e molti altri monumenti, sottilmente mescolati a citazioni di campanili veneziani, magari di San Marco, mentre al centro, in alto, una enorme, piramidale roccia bianca appare segno del divino. Sotto, a destra, le piccole figure degli armigeri e di Giuda sono osservate da un punto di stazione ancora diverso, diverso da quello degli Apostoli enormi in primo piano. Perché scegliere questa immagine e non magari quella di Giovanni Bellini che i due dipinti di Mantegna di Tours e di Londra certo ha veduto, Bellini che, nel dipinto della Orazione nell’Orto di Londra, alza il punto di vista, costruisce uno spazio unitario, lo stesso del Cristo e dei tre Apostoli e segna, ai limiti del monte a sinistra, una bianca, luminosa città, e, a destra, un cupo profilo di monti. Certo, archeologia e lunga durata nelle immagini di Mantegna, certo dialogo con Jan van Eyck e Rogier van der Weyden per Bellini, ma, tornando alla domanda iniziale, perché mai un fotografo così partecipe, attento, mette, in apertura di un volume di sue fotografie, proprio il dipinto di Mantegna? Avanzo una ipotesi: perché quello delle diverse prospettive, quello del dialogo figure-architetture, quello del rapporto rocce-figure come rocce, quello dei punti di vista differenti è la chiave per capire il lavoro di Luca Mantovani. Evocano quindi le scandite, diversificate prospettive del quadro del Mantegna i diversi punti di ripresa, le ritagliate scansioni delle foto di Mantovani. Ed ecco, subito, Castellaro Lagusello, mura, torri, scorcio dal basso; oppure, a Fontanellato, la vista dalla torre della campagna aperta senza limiti, profilo lontano, come la città incombente del dipinto di Londra. Anche Volta Mantovana evoca di nuovo Mantegna, come a dire, lo sguardo del passato avvia quello dell’oggi a capire, a leggere il presente. Mantovani ha il senso del camminare il paesaggio, dico bene, non nel ma il paesaggio, come a Venezia, come a Castellaro Lagusello dove basta un minimo spostamento di punto di ripresa e tutto, improvvisamente, cambia. Certo, dentro queste immagini, leggi la consapevolezza della fotografia che è pensata come essere direttamente in una finestra: a Mantovani piace leggere lo spazio così, usa una Leica a telemetro perché ama vedere la fotografia prima di scattare, vuole pensare l’immagine. Queste sono tutte fotografie pensate a lungo: per sceglierne una sessantina ne ha scattate soltanto una ventina di più, fotografia come meditazione, dialogo attento, percorsi meditati sui luoghi, nei luoghi. E Sabbioneta è una chiave importante: il muro cilindrico svasato di una parte delle mura, lo scorcio della parete da cui trapela, come nel dipinto di Bellini, un paesaggio; e ancora un tronco rinsecchito, come l’albero di Mantegna in primo piano nel quadro di Londra, e ancora l’albero fiorito e quello stecchito a confronto, sempre sulle mura di Sabbioneta, che fanno pensare alle simbologie del meta-tempo, della durata che si colloca oltre il tempo, nella Resurrezione di Borgo San Sepolcro di Piero della Francesca coi due alberi uno fiorito e l’altro stecchito, albero che torna molte volte nei dipinti di Giovanni Bellini, ad esempio nel San Francesco della collezione Frick a New York. Un fotografo così attento come Mantovani non ha fatto tutto questo per caso, e lo conferma la meditata durezza delle immagini che seguono: un angolo di Sabbioneta a confronto con una immagine vagamente Art Nouveau della fabbrica del Labirinto alla Masone e poi le strutture raffinatamente arrotondate di Mantova, colte negli spazi enormi della reggia e di Palazzo Siliprandi, contrappunto di altre arcate, altri spazi, da Palazzo Pisani a Venezia, alla Galleria degli Antichi a Sabbioneta. Nel libro sono importanti gli accostamenti, corridoi scorciati fra muri, diedri, ma ancora dettagli di grande forza, come la base di un pilastro della chiesa dell’Angelo Raffaele a Venezia e quella di colonne e pilastri del Duomo di Mantova. Luca Mantovani ha la sapienza della scoperta dei dettagli, ad esempio di volte, di colonne, di volumi, e sa sempre come illuminarli di una luce pari, con tagli di grande efficacia. Il suo sguardo ha una tagliente durezza, e penso ai pilastri di Palazzo Te con le nicchie e il bugnato rustico dei basamenti, e penso agli scorci di una colonnata semicircolare nel grande sistema della reggia a Mantova o ai resti della chiesa di San Domenico, nei pressi delle Pescherie di Giulio Romano, sempre a Mantova, dove scopri un arco in rovina, un frammento, particolari sospesi nel vuoto come quella edicola con croce al centro, ritagliata contro una parete bianca, o come il pozzo inquadrato fra due colonne e al culmine un timpano nel cortile di Palazzo Grimani a Venezia. La foto di Bagnolo San Vito è un enigma, ma insieme dialogo e variante rispetto a una precedente storia. Luigi Ghirri riprende in veduta frontale quel portale aperto sul nulla, spazio senza eventi nel vuoto della campagna; Mantovani sceglie una strada diversa, lungi dalla ironia sottile e sempre presente nello sguardo di Ghirri (lo scrive Gloria Bianchino nel saggio che introduce la precedente ricerca di Mantovani, Piccole Terre di Frontiera), considera il pilastro come struttura isolata, lo riprende dal basso senza il contrappunto dell’altro sostegno, lo mette in parallelo con il filare e la strada che affonda dietro, lo fa sembrare una struttura isolata, densa di forza. E poi ecco lo sguardo verso l’alto, a confronto torri diverse, Pomponesco e Venezia, o ancora la parte alta della rotonda matildica di Mantova e un arco dell’Arsenale di Venezia sul vuoto bianco e poi, ancora a coppie, le immagini scorciate, diedri di edifici, a Sabbioneta e a Mantova, scorci ripetuti dove la densità delle forme fa cogliere una durezza rocciosa, una impressionante scomposizione dei dettagli fino alla griglia dei rosoni di pietra sotto l’arco di trionfo del Sant’Andrea a Mantova, fino a quelli delle volticelle a crociera che poggiano sulle colonne del portico della Beata Vergine Incoronata a Sabbioneta. Il libro continua con invenzioni di eccezionale trasparenza di sguardo: un angolo di struttura a la Masone, una bianchissima colonna del Teatro Sociale a Mantova, e poi sovrapporsi di cornici nello scorcio zenitale delle facciate della chiesa di San Barnaba a Mantova e, alla fine, due figure al culmine delle strutture a Pomponesco e a Mantova. Dunque un grande racconto questo di Mantovani, per lui infatti quel dipinto del Mantegna a Londra, e quello meno per lui stimolante di Tours e ancora quello di Giovanni Bellini sempre a Londra, gli hanno fatto comprendere che lo spazio si evoca per frammenti, che dialogando direttamente con un frammento si raggiunge una dimensione diversa, sublime potrei dire, nel rapporto con le cose. Penso che lui, Mantovani, sappia andare oltre le radici formali di Gabriele Basilico in Walker Evans e, ancora, andare oltre la contemplazione delle immagini di tanti altri fotografi, da quella sublimata di Giovanni Chiaramonte agli altri del gruppo di Viaggio in Italia, perché sta scoprendo qui una storia diversa, sta passando insomma dall’analisi formale e magari anche mitica del paesaggio a una incombente durezza delle forme, a una loro presenza violenta, ineludibile, ossessiva. Pensare un dipinto come quello di Mantegna a Londra, coglierne le scansioni spaziali così diverse e stabilire una trama narrativa dove si inizia con pacate, intuite visioni della pianura per arrivare poi a scansioni di spazi sempre più taglienti e repulsive, non deve essere frainteso. La visione letteraria, contemplata, di tante immagini del Po, il Po che scende al piano e si dilata negli spazi larghi delle anse e, in estate, delle lanche nei terreni golenali è, mi sembra, qualcosa che non corrisponde alla forza e al racconto di questo volume. Mantovani non contempla, ma analizza, costruisce, scompone, taglia le forme e le rende aggressive, per lui il viaggio mitico, sottilmente angosciante del primo volume, diventa, nel secondo, nuovo spazio, nuova presenza, frattura, costante evidenza, anche violenza. Scopro insomma che Ghirri o Chiaramonte o Basilico sono sempre più lontani, e anche e proprio Ghirri, con la sua surreale capacità di scoprire ironici contrappunti nelle immagini, è un modello conosciuto, amato, ma distante. Mantovani sceglie la durezza del paesaggio, anzi delle sue strutture, ritaglia l’ingombrante presenza di colonne, basamenti, diedri, scopre la loro geometrica astrazione e le collega alla bloccata scansione, per distinti frammenti di racconto, della Orazione nell’Orto di Londra. Finora molto pochi, e nessuno del gruppo dei fotografi di Viaggio in Italia, aveva saputo raccontare la violenza delle architetture, degli spazi, della storia come Luca Mantovani sta facendo. In alto, di scorcio, a fine libro, scolpite come i tre Apostoli nel quadro di Mantegna, ci sono due figure, contro cieli di pietra.