LA RIVELAZIONE SILENZIOSA
Elena Pontiggia

Che cos’è un microclima? Tra le molte definizioni che troviamo nei libri e nei dizionari, ci incuriosisce questa: microclima è il clima particolare di una porzione di territorio chiuso, che risulta diverso da quello che ci si aspetterebbe in quella zona. A pensarci, la definizione ha punti di contatto con quella di spirito libero data da Nietzsche: uno spirito libero è chi pensa in modo diverso da come la sua origine, la sua storia, le sue condizioni, le opinioni del suo ambiente lo indurrebbero a pensare. Anche nel Microclima di Luca Mantovani troviamo una diversità, in questo caso di sguardo. Microclima, qui, è una geografia d’elezione dell’artista, racchiusa in un fazzoletto di terra che va da Modena a Parma a Guastalla, ed esplorata in un’angolatura privatissima. Potremmo dire che nei suoi paesaggi, come in una sorta di Et in Arcadia ego, si manifesta la presenza della morte? Così può sembrare, se muoviamo dai principali soggetti di questo libro: il Tempio di cremazione di Paolo Zermani e il Famedio Venturini di Aurelio e Isotta Cortesi a Parma, il cimitero di San Cataldo di Aldo Rossi e Gianni Braghieri a Modena, ai quali si aggiunge la cappella di Go Hasegawa a Guastalla. Eppure quello che emerge nel lavoro di Luca Mantovani e nel suo, per così dire, microclima artistico è soprattutto l’apparizione di una geometria, di un ordine cartesiano, di una tavola pitagorica che si mostra nel rigoglio disordinato della natura. Il végétal irrégulier, che tanto piaceva ai romantici e a Baudelaire, non è eliminato, anzi si manifesta in tutta la sua libertà, ma trova il suo limite e il suo contrappunto in una architettura regolare, classica, che suggerisce, insieme al suo ordine, un ordine più generale delle cose. Così, dietro un cespuglio di foglie, le squadrature del Tempio di Zermani danno anche al cielo un ritmo geometrico. Così la scacchiera verticale di Aldo Rossi pone un argine alle chiome esuberanti degli alberi. Una grecità inaspettata si disegna dietro la trama confusa della vegetazione.  È una geometria, quella delle opere di Mantovani, non orgogliosa e per nulla impositiva. Una casa all’orizzonte, con la sua bella forma di casa, come direbbe Vivian Lamarque, cioè col tetto a cuspide come in un eidos platonico e nelle fiabe, si lascia scorgere a fatica dietro un sipario di foglie. Una giungla di felci, un ventaglio di rami, un traliccio di fronde lasciano spazio solo in lontananza a un teorema di quadrati o di rettangoli. A volte però accade il contrario: la lavagna di un muro si interpone fra una parete di paglie e un viluppo di piante; i poliedri di un edificio inquadrano un nido di rami; le nicchie e le cuffie di una architettura (filiazione di un tempietto longobardo o di un castello imperiale, dimora di un Federico II rinato nel mondo contemporaneo) incorniciano una ghirlanda di fiori. A volte, ancora, un’arnia di legno dalle mille cellette riceve l’abbraccio di un arbusto, come in una metamorfosi di Filemone e Bauci. Il paesaggio, allora, è anche un luogo di rivelazioni, dove quello che si mostra a prima vista rimanda a una seconda vista, come a una meta lontana. Luca Mantovani, insomma, ci invita a guardare verso un oltre che assume forme diverse. Nelle sue opere c’è sì la presenza della morte, ma non della sua smorfia, del suo raccapriccio, della nostra angoscia. Tutto assume una serenità nuova, assicurata dall’arte degli architetti, ma soprattutto dall’esprit de géométrie, dal sentimento di una sacralità silenziosa che si rivela nel paesaggio e ne cancella la provvisorietà. Si può dire della fotografia di Luca Mantovani quello che De Chirico diceva della pittura metafisica: “L’opera d’arte metafisica è, quanto all’aspetto, serena; dà però l’impressione che qualcosa di nuovo debba accadere in quella stessa serenità”. Anche nelle opere del giovane artista lombardo sembra che qualcosa debba accadere e quel qualcosa si rivela come un ordinamento che si annuncia da lontano, in nuce. Il suo Microclima, l’atmosfera che differenzia i suoi spazi, la sua “storia diversa”, come l’ha efficacemente definita Arturo Carlo Quintavalle, consistono allora in una ricerca delle origini, dei fondamenti, dei titoli di nobiltà del reale. Il tentativo di ricondurre l’infinito a una misura d’uomo, di tradurre l’incommensurabile in misurabile, ma anche l’anablefobia che dava il titolo a un precedente lavoro di Mantovani, cioè la paura di guardare verso l’alto e verso l’ignoto, conducono l’artista all’adozione di uno sguardo minimale, a una ricerca apparentemente dimessa in cui però si introduce l’ombra di quell’alto e di quell’ignoto. Il famedio non si presenta come uno spazio trionfale, una celebrazione con la fascia tricolore, ma come una costruzione in sbieco, in tutti i sensi. Il cimitero di Aldo Rossi non richiama la maestosità neoclassica, ma si nasconde, come se volesse mimetizzarsi. Allo stesso modo i colori che Mantovani sceglie e ci propone esplorano le declinazioni più introverse, i valori più intimi, delle tonalità. Non c’è posto nelle sue opere per le tinte sgargianti, cioè, come insegnano alcune etimologie, per quelle che squarciano il silenzio. C’è, nel suo minimalismo, un accento antiromantico, antieroico, antisublime, che scruta l’arte e la natura a due passi da casa e lì, dove pochi guardano, vede tutto quello che c’è da vedere.



INCIPIT
Matteo Agnoletto

Nel ripercorrere ancora il lavoro di Luca Mantovani emerge una chiave di lettura perentoria, che in materia di composizione, fotografica in questo caso, è anche valore. Persiste certamente un’attenzione rispettosa verso i maestri, ma particolarmente incisivo è il rapporto con il clima ambientale dei contesti raffigurati, mai scelti per opportunità. Tale relazione può apparire come una sorta di automatismo, insistendo sulla continuità di alcuni temi derivati dai grandi predecessori, tra i quali indubbiamente Arturo Carlo Quintavalle nell’esercizio coltissimo di scovare nella storia significati attuali. La dimostrazione diventa, come in un teorema, evidentissima in opere selezionate perché capaci di instaurare un dialogo con i luoghi, ascoltandoli. Con questo riavvicinamento ai grandi classici, che il latinista Ivano Dionigi definirebbe come un vero e proprio atto di investigazione sul mistero, la serie di inquadrature di Mantovani si colloca dentro una prospettiva pensata quasi come un riandare alle radici di un proprio, personale pensiero per interrogare e interrogarsi. Paolo Zermani (Tempio di cremazione, 2006), Aldo Rossi e Gianni Braghieri (Cimitero di San Cataldo, 1971), Go Hasegawa (Cappella, 2016), Aurelio e Isotta Cortesi (Famedio Venturini, 2007) sono i progettisti costruttori che compaiono, senza ordine cronologico, nel racconto fotografico. Se con le prime due architetture si scopre una inedita quanto inaspettata novità nel “rivedere” fabbriche conosciute, per la cappella e il famedio si tratta di una specie di scoperta non attesa. Parma, Modena, Guastalla sono le tre ex capitali padane incontrate in questo tragitto. Luoghi dell’Emilia ormai dispersi tra periferie disordinate e devastatrici che non si colgono, a cui non si concede spazio nell’inquadratura, se non per rimando, sineddoche o citazione come nel traliccio che incornicia il Tempio di cremazione. Luoghi capaci a tratti di mostrare quell’“infinito dell’aperta campagna intercettato ogni tanto da lunghe file di alberi alti e sottili […] una grande distesa di acquitrini come veramente era la natura del luogo dove sorgeva la città” richiamando Antonio Delfini e quanto scrive ne Il ricordo della Basca. Se chiaro diviene allora il perimetro geografico entro cui sostare, indiscutibilmente motivato da ragioni di dialogo e di appartenenza, meno immediato è comprendere ciò che tiene insieme la catena progettuale proposta, non riducibile alla semplice funzione funeraria e ai riti che qui si consumano, sovrastata e resa totalmente inavvertita dall’affascinante impostazione ottenuta con una maniera tutta particolare di dosare colore e luce: impossibile non ricordare talune composizioni pittoriche di Morandi. La struttura di Microclima si può leggere allora in due maniere: nel primo modo come sequenza logica e definita di immagini che tutte insieme sono “opera”, unicum coerente, nel secondo come quattro autonomi capitoli. In primis, la successione dei modelli architettonici prescelti non va fraintesa come operazione rassicurante. Piuttosto vuole confermare come tali monumenti siano postumi e quindi inattuali, certamente più interessanti rispetto a quanto offre il panorama odierno. All’inquietudine del presente si sovrappone la certezza del capolavoro. Viceversa, la lettura distinta e particolare delle singole architetture sposta la riflessione su altri piani d’indagine: il portico con l’ordine gigante di Zermani, il tetto a capanna di Aldo Rossi, i muri con nicchie di Hasegawa, la griglia di Cortesi non sono forse elementi linguistici iconici? Appartenenti a questo contesto, effettivamente, ma anche segni senza tempo della storia e dell’architettura. Segni che prendono il sopravvento sulle narrazioni conosciute: non solo, non più, la nebbia che avvolge i recinti in mattoni del Tempio parmense prossimo alla via Emilia o la vista aerea, a volo d’uccello, sull’ossario di Modena, celebre anche nella sua giacitura in mezzo alla campagna innevata, ma un ribaltamento di intenzioni. Sembrerebbe prevalere la frammentarietà, la casualità, la contraddizione -figure tipiche del nostro tempo- se non fosse che ogni risonanza ancora percettibile riconduce l’osservatore alla verità delle cose, alla coerenza del pensiero manifestato da questi diversi autori. Dalle fotografie di Mantovani risalta quella differenza fondamentale in architettura tra ciò che riesce ad essere “esemplare” e ciò che si limita a divenire mero episodio insignificante. Per queste ragioni probabilmente l’obiettivo non varca mai la soglia sacra d’ingresso alle opere. Evita di raggiungere l’interno dell’architettura, tralasciando le alterazioni. Si preferisce contemplare, laddove la presenza incoerente permane, piuttosto che esplorare. Questo atteggiamento consente anche una visione del presente, quasi si stesse assemblando un documento d’archivio consultabile in un futuro prossimo: l’incompiutezza delle forme mancanti e dei muri interrotti a Modena, la sparizione della rete metallica arrugginita ormai impercettibile immersa tra le edicole in pietra nel lavoro di Cortesi, così come la marmorea cappella di Guastalla, priva di imperfezioni, collocata quasi in astrazione dentro un cimitero di campagna vicino al Po. Artefatti della morte, architetture della fine, che dovremo richiamare in chiusura. Un tema questo degli spazi di sepoltura favorevole per evidenziare la negazione del superfluo. L’elemento nuovo, dominante, imprevisto è la presenza della natura in queste opere che forse mai nel concepimento iniziale è stata parte integrante di questi progetti. Manifestandosi nel tempo e con il tempo, la natura, sia essa spontanea, causata dalla mancanza manutentiva, o messa lì come ornamento necessario, mostra una magnifica veduta. Essa non solo diventa gradiente cromatico, non solo è richiamo a queste terre di pianura, non solo è vita, ma diviene qui e ora fonte di ispirazione. Una citazione, verrebbe da dire, dell’enciclica papale dove il mondo naturale è rappresentato come un dono, un messaggio e un’eredità comune per tutti. Ritratta come prato incolto, aiuola, erba infestante, fiore o filare ordinato d’alberi, questa natura ricercata è in primo piano, lasciando l’architettura sullo sfondo, a volte al termine del fuoco prospettico, esattamente come accade nelle sontuose tele del Barocco emiliano. Affidare all’imprevedibilità della natura una centralità compositiva, quasi didattica, contribuisce a fissare un punto di vista irripetibile, basato sugli stilemi del pittoresco: il contrasto tra le parti, l’irregolarità, l’asimmetria, la variazione. Spinge in altri termini l’occhio a scovare un gradiente di misurazione e di giudizio delle creazioni artistiche, svelando il carattere proprio di ognuna. L’associazione qui restituita tra architettura e natura stabilisce così l’annullamento di ogni gerarchia, attribuendo a entrambe le medesime e paritetiche modalità, per emozionare e stupire. Una si completa con l’altra. Infine, in forma di postilla, occorre un chiarimento. Tra questi centri emiliani sussiste uno spazio che non è rappresentato ma magistralmente evocato. Un paesaggio in corso di estinzione, formato dai ruderi isolati delle case contadine disperse tra i campi, i cui muri in mattoni, i tetti a falde, le masse volumetriche piene sono la matrice delle architetture fotografate. Le rovine sono come “architetture morenti”, quindi manufatti sacrali, invasi dalla vegetazione (ancora natura), diventate tali perché abbandonate e dimenticate dall’uomo, che non abita più gli spazi di Microclima. Dopo questo processo di decomposizione che trasforma i ruderi in ammassi di “pietre”, l’albero riprenderà possesso di questo luogo costruito. In sostituzione dell’architettura, come raccontano gli antichi trattati, l’albero diviene l’archetipo fondativo. Quello stesso archetipo, che nel setto in calcestruzzo del cimitero di Modena, è incipit aprendo la narrazione, divenendo contemporaneamente e ciclicamente inizio e fine del fenomeno.
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