TERRA DEI MORTI
Paolo Zermani

C’è un’ossessione in queste fotografie di Luca Mantovani. Mi viene da pensare a una certa parte del lavoro di Giorgio Morandi che Francesco Arcangeli aveva ben individuato nella sua controversa monografia del pittore: «L’Italia come terra dei morti», di cui ora il Serraglio mantovano potrebbe rappresentare un’enclave emblematica. Queste prospettive portano quasi sempre a relitti, a scheletri, a rottami. Senza speranza, senza uomini, esse si presentano divise in due, tra il reiterato disegno della terra, alla base, e lo svuotamento, la perdita di misura di tutto il resto. Ma proprio leggendola così, divisa in due da un’ideale linea orizzontale, la maggior parte di queste immagini individua forse la principale verità delle intenzioni di Mantovani: rilevare la terra, nel suo ostinato secolare progetto. Una terra quasi sempre lavorata, ordinata, anche se ora deserta. Luca Mantovani conosce perfettamente il ruolo che la Galleria degli Antichi a Sabbioneta, il Palazzo della Pilotta di Parma, la costruzione del Palazzo Farnese a Piacenza, e anche altri monumenti, considerati minori, hanno esercitato nel tempo all’interno del mosaico paesaggistico padano. In essi la terra è fiamma perennemente accesa. Mantovani, che è fotografo, ma anche architetto, scava e confida ancora, in questa terra italiana e padana malata e fertile, poco lontano da dove Aldo Rossi, ormai diversi anni fa, ci ha consegnato in forma di sepolcro, qui, nei luoghi dell’argilla, un colossale blocco di terra forato a cui l’aria dona ogni giorno nuova vita.



L’ANGOSCIA DESERTA DELLA PIANURA
Gloria Bianchino

Il campo di azione è chiamato “Il Serraglio”, quello che sta a sud della città di Mantova, limitato dal Po e dal Mincio e da una serie di canali, un Serraglio, una difesa che, nei secoli, ha protetto da sud Mantova, protetta su gli altri tre lati dai Laghi. Ma che cosa fotografa e perché fotografa Luca Mantovani? La chiave la offrono le prime riprese di questa serie. Ecco subito una porta-finestra rivolta verso la pianura, ai lati due ante spalancate, come la prospettiva di una tarsia quattrocentesca: lo sguardo verso questa pianura, verso lo spazio, sarà uno sguardo organizzato secondo la prospettiva centrale, uno sguardo che sembra evocare Leon Battista Alberti. La seconda foto è come un dettaglio della prima immagine, ci si avvicina quasi in sequenza alla finestra e si guarda l’orizzonte, un primo piano di un rilievo e poi lo slontanare delle file degli alberi contro un cielo piatto. Il cielo atono, privo di volumi, è una delle scelte dell’architetto che fotografa e lo provano le immagini che seguono. Dunque ecco un campo arato, sconvolto dai tagli del vomere, e al centro una fattoria, un casale, con un arco aperto, insomma ecco un altro – traguardo –, un mirino che punta verso un orizzonte centrato in asse e, a destra, un nodo di alberi. Vediamo le altre immagini. La foto che segue è una veduta che punta ancora una volta sui segni, le tracce del lavoro, in primo piano ecco la – volta –, il giro dell’aratro che segna come una “U”, quasi un canale ma insieme un asse che punta a un albero isolato quasi al centro in coppia con l’altro albero alla sinistra. Mantovani vuole dirci che fotografare la pianura vuol dire coglierne gli equilibri e, insieme, le tracce del lavoro; tracce, si badi, dell’uomo, dove il lavorante, il contadino, non lo incontri mai. Un’altra foto propone un sistema di confini fra coltivazioni diverse, in primo piano come una “Z”, in secondo piano subito un asse, quello del “razzo centrico” come avrebbe detto un teorico rinascimentale, che porta equilibrio e stabilizza l’intera veduta. Poi una immagine di un nucleo di case organizzato attorno a un’abitazione ad un piano, attorno solo case basse e dislivelli di terra. Poi una veduta, questa volta di sottili alberi, forse pioppi, lungo quello che sembra un argine e a destra una torre contro un cielo grigio. L’ultima foto ci fa capire bene come lavora il fotografo: siamo in asse davanti a un triangolo di tracce di aratri, di macchine che hanno segnato il terreno con curve e raggi come di una enorme “V” che si avvallano davanti a noi mentre, a sinistra, un casotto scuro e un blocco con dietro un alberello reggono come quinte lo spazio mentre al centro un blocco grigio di alberi taglia sotto un cielo di nuvole grigie e, alla destra, l’orizzonte si apre verso altri brevi nodi di piante. Insomma il fotografo punta a una visione come da messa in scena prospettica, evoca Alberti e il suo trattato Della Pittura, ma insieme percepisce il grande vuoto, l’assoluto degli spazi, l’idea di una campagna dove le figure sono scomparse, quelle dei lavoratori o degli animali, e resta soltanto l’assoluto dei vuoti, tracce del lavoro scavate al suolo e un ordine, una compostezza costruita con lo sguardo in prospettiva centrale. Ecco, partendo da queste immagini posso dire che Luca Mantovani sa ben sfruttare la foto analogica, il formato 24x36, il bianco e nero e le varie tonalità dei grigi. La sua ricerca punta agli spazi assoluti e a una visione come sospesa fuori del tempo della pianura e di quelle terre del “Serraglio”, chiuse dai canali e dai rivi e dai due fiumi, il Mincio il Po. Dopo questa contemplazione dell’assoluto, del vuoto della campagna, Mantovani volge lo sguardo alla dimensione reale, non mitica dei luoghi, ed ecco i tralicci della corrente elettrica ad alto voltaggio, ecco i pannelli solari, ed ecco le putrelle dei ponti e ancora la peschiera e poi un sistema di vasche e di chiuse. Il fotografo sceglie sempre uno sguardo assiale, equilibrando strutture e prospettive, ma quasi sempre lo sguardo lo conduce al naturale: proprio quello sguardo gli fa cogliere un canale scavato fra i solchi di un campo e il verde intonso dall’altro lato, oppure gli fa organizzare un chiaro, ampio asse ottico mediano rispetto al filo di alberi all’orizzonte e al bianco casale alla destra. Gli assi, i vuoti, i chiari sono importanti per Mantovani, così ecco un polveroso sterrato con coltivi di pannocchie ai lati e, al fondo, un grande edificio; così ecco altre vedute assiali fino alla immagine di un cimitero ripreso in asse verso la porta di accesso aperta verso gli spazi vuoti della campagna e sono vuoti, deserti i blocchi delle tombe coi loro freschi mazzi di fiori. Del cimitero vediamo forse un controcampo, ancora una volta in asse, come una prospettiva vista secondo Aldo Rossi, che ritorna in una immagine di blocchi quasi metafisici lungo una vuota strada accompagnata da rovine nel verde. E poi una fabbrica, un complesso abbandonato sempre letto in visione assiale, una prospettiva senza tempo. La chiave per capire la vera matrice delle ricerche sull’immagine di Mantovani la offrono due fotografie ritagliate piccole contro un grande fondo nero; lo sguardo va dall’interno all’esterno, prima una finestra, poi una finestra e una porta. Nella seconda immagine il muro sbrecciato fa capire che il fotografo sta dentro una casa abbandonata, insomma che guarda dall’interno di una rovina; ma, insieme a questo, capiamo anche che l’ immagine che Mantovani propone non è semplicemente il vero, ma una riflessione – metafisica – sul vero. La conferma di questo suo diverso sguardo ci viene da un’altra fotografia: due pareti di verde altissime, un lampione, al centro forse l’ingresso di una stazione ferroviaria; qui, cogli il contrasto assurdo fra una natura architettata, costruita, e un edificio industriale, anche qui cogli il tempo sospeso, il vuoto che torna in altre immagini: nella strada dentro il cimitero, muro aperto sulla luce della campagna. Nelle foto che seguono Mantovani punta sul medesimo schema compositivo, un modo per dirci che lo sguardo sul mondo è quello che viene costruito, secondo la prospettiva rinascimentale, ancora nel teatro e nella pittura ottocentesca che ci hanno trasmesso l’immagine della bassa padana. Sono teatro, messa in scena, l’interno diruto di una fabbrica con tralicci sospesi, un grande arco come boccascena che apre ancora una volta su una vuota pianura, e poi uno spazio interno di grandiose rovine. Mantovani coglie quindi assi mediani di vuoti spazi usando una prospettiva per angolo, o ancora gallerie di scrostate colonne antiche, e vuote prospettive di paesi come abbandonati che si alternano a vie dentro i cimiteri con le cappelle di famiglia dalle targhe di marmo. E poi, ancora, un altro cimitero sospeso nel vuoto della campagna e, quasi a confronto, una grande – corte – e infine poi una porta di legno con davanti una scala, quasi una citazione di una antica fotografia di Fox Talbot. Seguono vedute di corti o di paesi e una strada vista in asse con ai lati due edifici bloccati nella loro assoluta, immota prospettiva. Certo Mantovani non ci propone un territorio guardato con occhio pacificato e partecipe, semmai il suo è uno sguardo durissimo, amaro, come la veduta con la casa forse abitata, una porta e tre finestre sono aperte, chiuse tutte le altre, ma vicino è crollata la stalla e il fienile. Così lo sguardo di Mantovani è sempre intenso, forte, come quando riprende una via asfaltata che finisce in uno spazio sterrato o come quando fotografa in asse una grande curva di bianca strada sterrata puntando su un immoto doppio filare di pioppi. Mantovani contempla con amarezza il mondo, descrive l’angoscia della solitudine, il vuoto senza eventi, lo spazio dell’abbandono, così ecco un’ennesima strada vista in asse, sentiero e, a sinistra, un albero morto; così ecco una corte dalla torre sull’arco che apre su uno spazio vuoto. E lo sono, prive di figure vive, tutte le altre fotografie: canali con piccole cabine di trasformatori elettrici, la stazione ferroviaria deserta di San Benedetto Po, un muro di cemento dai contrafforti triangolari che reggono le montagne di immondizie della discarica, una torre deserta, le finestre con le assi in croce lungo una lanca di acqua. E poi case, e tettoie, e edicole con santi dipinti sospese nel vuoto davanti a una chiesa, e un cimitero nel verde, e le ciminiere di una fabbrica abbandonata sospese nel vuoto delle rovine, e ancora tettoie sopra depositi di materiali, e ancora tralicci, e poi gru e cremagliere e enormi depositi di sassi. Le montagne dei rifiuti trovano un equilibrio nella strada a “Z” che Mantovani coglie costruendo l’asse su un traliccio al centro in terzo piano. Forse una chiave per capire questo disincantato racconto sta nell’ultima foto: alla destra una casa abbandonata, alla sinistra una poltrona sfondata con sopra dei sacchi, al fondo delle case forse nuove dove potrebbe esservi vita, vita che in primo piano non appare. Domina qui, il senso di distruzione e di morte che questi luoghi propongono. Perché il “Serraglio” è un luogo dove alla vita, che qui non viene rappresentata, si è sostituita l’angoscia della fine e dove l’architettura, lo sguardo assiale, prospettico, attento al rapporto fra tracce umane nei coltivi e spazi analoghi scoperti nei cimiteri, le vie dei paesi deserte come quelle delle sepolture, ci fanno capire il senso delle fotografie. Esse certo intendono rappresentare la lunga durata ma esse sono un giudizio sullo spopolamento, sulla fine di una cultura contadina, sulla disordinata decadenza di un mondo dove anche gli antichi abitanti sono scomparsi. Immagini contemplate, meditate, dense di una antica angoscia.

 
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