VUOTI PULSANTI
Alberto Ferlenga

La prima immagine di questa nuova interpretazione fotografica dell’opera di Carlo Scarpa mostra l’ingresso di un qualunque cimitero di campagna. Alle sue spalle, pochi indizi, che solo degli esperti conoscitori del luogo potrebbero decifrare, denunciano la presenza di una delle più note architetture contemporanee. Gli scatti successivi si avvicinano lentamente al soggetto principale e completano il primo sguardo: lapidi, tombe di famiglia, ritagli di prato e la confusione di un tipico cimitero italiano che, poco oltre, l’autore si lascia indietro per concentrarsi sul piccolo mausoleo Brion, dove tutto, nella concitazione delle forme, diventa ordine e simbolo. Poche opere d’architettura sono più difficili da ritrarre per un fotografo e non perché non offrano spunti - la tomba ne è una sorta di miniera - ma perché troppi sguardi si sono posati su di lei: da quelli degli architetti che la visitano quotidianamente e ne portano con sé le immagini a quelli professionali, riversati in centinaia di pubblicazioni che hanno reso ogni suo particolare riconoscibile al minimo accenno. Eppure, Luca Mantovani ha fatto la piccola magia di fornirci una visione nuova. Il suo percorso di avvicinamento al senso profondo del luogo privilegia, come interpreti, le figure di contorno; sono i muri, infatti, i protagonisti principali del suo personale racconto. Muri che non separano mai del tutto un dentro da un fuori, e che fanno da appoggio ai sottili profili di campanili o case circostanti. Muri tagliati dal gesto dell’architetto e verso cui si dirigono, o a cui si accostano, gli elementi principali della rappresentazione che si dipana incessantemente all’interno del recinto. Attratti e misurati dall’orizzontalità dei muri, anche i dettagli che più ci sembrava di conoscere assumono un significato inedito che ci spinge a riconsiderarli; lo sguardo del fotografo li ha separati delicatamente dagli insiemi cui appartengono, li ha sezionati e accostati ad altri frammenti e grazie a queste attente operazioni di leggera vivisezione e di cauta traslazione a noi sembra di vederli per la prima volta. Mantovani con le sue fotografie cerca un’altra vita dei materiali plasmati dalla mano di Scarpa, rispetto a quella che i bellissimi disegni o la realtà immediata ci hanno restituito. Quello che ci mostra la sequenza di immagini prese dentro questo piccolo universo, è una famiglia di dettagli che sembra altro da quella dei più conosciuti. Le pareti sospese, le tracce a terra, le aperture cercano il loro completamento non tanto in altre parti analoghe a sé, bensì nell’erba cresciuta, nei rampicanti che li coprono o negli alberi che trapelano dietro le architetture di cemento. La breve distanza di una cesura, di una separazione, di una frattura, ci parla, ad ogni scatto, di una aspirazione al contatto negata e di una ricomposizione impossibile, che legano metaforicamente l’architettura e la morte. Il centro delle fotografie ci dice anche che la vera essenza di questa architettura complessa sta nei vuoti che essa genera, e in come, dentro la fluida presenza di questi, si determini una gerarchia immateriale in cui, di volta in volta, le tensioni tra gli elementi architettonici inventati da Scarpa e ciò che pre-esisteva, comprimono l’aria secondo intensità sempre diverse. Mantovani inquadra, dunque, più lo spazio tra le cose che non le cose stesse scegliendo sistematicamente di non rappresentare nella loro interezza le diverse architetture che popolano il luogo. Uno spazio che, come gli elementi che lo bordano, spesso sfugge ad una riconoscibilità immediata, che ci parla di una vita successiva dell’opera, fuori dal diretto controllo del suo autore. Quella infatti che si rivela, quando l’ombra diventa protagonista tra un albero, un muro e un’arca di cemento o quando un labirinto inquieto di muri bassi si confronta con l’ordine convenzionale dei cipressi, è una versione diversa di un luogo che pensavamo di conoscere troppo bene per ricavarne ancora sorprese. Le relazioni che Mantovani coglie negli interstizi dell’opera più famosa di Carlo Scarpa sono il frutto di una ricerca accurata del giusto punto di vista, dell’inquadratura che esclude ciò che si può escludere, perché non aggiungerebbe nulla alla nostra comprensione, e include quello che nemmeno una visita attenta ci permetterebbe di cogliere tale è il peso attrattivo delle forme più famose. Ma ci sono altre scoperte tra gli scatti che progressivamente spostano l’attenzione dall’interno verso i bordi del recinto. Una serie di immagini riporta l’opera ad una essenzialità geometrica che, pur presente, è difficile cogliere nella complessità del linguaggio scarpiano. Un’altra, la più numerosa, è dedicata ai tagli e agli stacchi dove, tra la fissità delle architetture trapela il mutare delle stagioni che cambiano, i colori, il conquistare spazio della vegetazione spontanea. Altri scatti sembrano voler accelerare il corso del tempo e una possibile decadenza mostrandoci uno stato di rovina che pure l’architettura di Scarpa contiene in nuce. Come ci si è avvicinati all’opera, progressivamente la si abbandona, nel lasciarla si lancia un ultimo sguardo al muro grigio della tomba, dalla parte dei campi, per una verifica finale. L’oggetto, questa volta, è quell’ulteriore relazione che si può cogliere tra le sue geometrie e quelle della campagna. Quell’entrare in risonanza tra di esse che genera una sorta di alone anche all’esterno del complesso funerario. Le ultime due fotografie mostrano una vite e un gelso in primo piano; la recinzione è ormai lontana ma sembra contenerli in uno spazio più ampio, piuttosto che escluderli; uno spazio in cui muri, arcosoli, fontane si trasformano in filari, chiome arboree, fossi e la natura addomesticata dall’uomo mostra anche la matrice originaria di ogni architettura.



LANTERNA MAGICA
Paolo Barbaro

Sembra che tutto sia avvenuto in una giornata. Anzi, attorno al centro di una giornata tra estate e autunno: ad un certo punto si intravede il granturco alto, e le foglie seccate a terra ogni tanto. Si può pensare ad un sopralluogo preparatorio, di quelli che chi fotografa l’architettura fa in un posto che non ha mai visto prima per registrare gli orientamenti delle opere rispetto al giro della luce lungo le ore, le distanze a disposizione e la disposizione delle distanze, delle altitudini, dei pieni e dei vuoti. Una avventura preliminare, insomma, dove il fotografo magari non scatta nemmeno, magari guarda nel mirino di una camera abbastanza portatile senza nemmeno la pellicola caricata ma soprattutto inizia a stabilire un rapporto tra il suo vedere -che è poi la sua cultura- e quello che si trova davanti. Tra quello che sa di quel luogo e di quell’architettura e quello che non sapeva fino al momento di trovarsela davanti, dentro un luogo che non aveva mai considerato, progettarne il racconto efficace. Ma questa ipotesi, fondata sull’abitudine ai protocolli abituali della fotografia di architettura, rispetto all’opera di Luca Mantovani, è completamente errata, quasi specularmente opposta. È bene rendere conto alcuni elementi operativi, o tecnici, a tutti gli effetti linguistici. Il tempo apparentemente compresso in poche ore è in realtà costruito da ritorni in tempi differenti, tanto da costruire una durata completamente inventata che piega anche la percezione delle dislocazioni fisiche: impossibile ricostruire, per esempio, dalle ombre, la planimetria di quel luogo. Le sole tracce che indicano differenti occasioni le troviamo nel cielo, velature e cirri, addensamenti che suggeriscono con minime vibrazioni tra i toni del blu qualche stacco inatteso o qualche continuità come a inseguire i cumuli. È poi impossibile non conoscere, anche per chi non c’è mai stato, per lo meno per chi si occupa di immagine dell’architettura, quell’opera. È forse la più celebre di Carlo Scarpa, la sua immagine è stata trascritta da fotografi in un raggio di scritture ampio. Altra cosa però è conoscerne il luogo e il progetto di visione di Mantovani è da subito determinato saldamente. La scelta delle immagini per coppie dialettiche, è uno dei tratti salienti del procedere di questo autore, evidente in tutte le precedenti ricerche. Per Luca Mantovani la consapevolezza della potenziale infinità dei racconti si estende alla vita postuma delle fotografie: l’esterno diviene enigma che l’interiore, il pensiero delle immagini non scioglie mai definitivamente, un percorso senza traguardo. Il traguardo è, anche, per un fotografo, il guardare attraverso, e anche qui le scelte sono particolari. Pochissime ottiche, tutte grandangolari -principalmente il 28mm, che sul formato 24x36 utilizzato offre un angolo di visione di circa 75° sul lato più ampio, piuttosto dilatato, maggiore comunque di quello che si riferisce usualmente alla “visione naturale”. Del grandangolo, Mantovani non si serve mai per effetti di amplificazione e drammatizzazione, solo per offrire quel tanto più di spazio che renda l’intenzione di mostrare una visione, non un oggetto. La prima immagine guida lo sguardo in una veduta imperniata sul cipresso, verso l’ingresso del cimitero, i toni sono alti e la saturazione abbassata anche dal cielo velato che dà la luce uniforme, quella che i Becher usavano come fondale uniforme per il loro catalogo di edifici industriali lungo decenni, ma capiamo subito che questo non è un catalogo, siamo lontanissimi dal ridurre il costruito a natura morta, o a scultura. Poi un cimitero di campagna, veduta in asse sulla cappella con timpano tanto simile alle villette cresciute accanto al volume dei capannoni parallelepipedi a fine Novecento in questo Triveneto: un volume analogo si scorge in fondo a sinistra. Slittando nella pagina a fianco lo spazio è reciproco: al pieno della cappella corrisponde il vuoto centrale come una cavea animata dalle sponde di sepolture cresciute con qualche disordine, fino al fondale della grande architettura che si interrompe verso interni e tagli sul fondo. Poi due inquadrature d’angolo: quella che racchiude l’opera di Scarpa e quella con il setto che confina il non-moderno e punta il campanile di campagna definiscono in una simmetria imperfetta una prospettiva doppia, i punti di fuga fuori dall’inquadratura come da Bibiena e i due vuoti -quello scarpiano e quello del cimitero “qualsiasi”- aperti verso il fotografo. Poi la recinzione che esclude lo sguardo salvo l’emergere di pochi segni e come un controcampo. Segue il percorso del confine tra lo spazio cimiteriale e il paesaggio fuori, a tratti accennato e poi enunciato grazie a minimi spostamenti verso l’alto. Sono davvero rare le vedute in asse, le prospettive centrali, si intuisce un estremo pudore a considerare il fotografo come centro tolemaico dell’universo, governatore dello spazio. Viene restituita piuttosto l’inquietudine che si nutre di meraviglia, la consapevolezza della provvisorietà e la potenziale infinità delle cose: nessun oggetto -a parte la cappella un po’ geometrile in apertura- è ripreso nel suo insieme, c’è sempre uno spazio suggerito fuori dall’inquadratura dalle proporzioni stesse del costruito, dallo spazio che si dilata e avvolge. Ancora, troviamo traguardi in cui Luca Mantovani invita a inoltrarsi. Queste rivelazioni attraverso tagli, fessure, ricordano la scena infantile raccontata da Ingmar Bergman in Lanterna Magica: chiuso nell’armadio, scopre che spostandosi leggermente poteva far muovere lo sguardo attraverso la fessura tra le due ante, animare non visto quello che succedeva lì fuori. È questo, quindi, un viaggio apparentemente documentario nel luogo dell’architettura di Scarpa, dove la documentazione non rinuncia alla restituzione della verità e di un punto di vista saldo che mettendo da parte ogni pretesa di esaustività, chiarendo l’inadeguatezza della fotografia di architettura come mera apologia del costruito suggerisce una ricomposizione tra oggetto immanente e luogo teso alla trascendenza, ricomposizione che passa dalla meraviglia delle immagini del mondo.
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